Introduzione
Dormi, Vesuvio, dormi
Menu

 

L’ultimo romanzo che gli è stato dedicato è "L’amante del vulcano" di Susan Sontag, sebbene non si tratti di una storia del Vesuvio, ma dell’amore fra Emma Hamilton e il famoso ammiraglio Nelson, avversario di Napoleone, sullo sfondo turbolento della Repubblica Partenopea del 1799. Ma è significativo che sia lui – il monte più enigmatico e pericoloso d’Italia, lo "sterminatore Vesevo", come lo chiama Leopardi ne "La ginestra" – a ispirare ancora una volta la letteratura con il fascino di una presenza che incombe silente sulla città.

Non è l’unico vulcano d’Italia. Né l’unico ad aver provocato morte e distruzione: i suoi fratelli d’America o del Pacifico sono anzi ben più potenti e micidiali di lui. Ma è senza dubbio il più celebre al mondo, il più descritto, il più rappresentato da pittori di fama o vedutisti da strapazzo. Il più invocato, temuto e maledetto. Il suo grande rivale siciliano, la mitica Etna, anche se è tuttora in piena attività, al confronto ci rimette.

Il fatto è che il Vesuvio sovrasta Napoli. E Napoli e il suo territorio costituiscono un sito millenario, un luogo sacro dove le civiltà si sono susseguite, sovrapposte e stratificate senza che la successiva cancellasse mai del tutto la precedente.

Terra che parla quella vesuviana: attraverso il mormorio misterioso delle sue Sibille, e anche attraverso i soffi e i rantoli del suo vulcano. 

I Greci ed anche i Romani ignoravano del tutto che il Vesuvio fosse un vulcano. Anche gli schiavi ribelli di Spartaco che nel 73 a. C. si accamparono sulle sue boscose pendici non ne sapevano nulla. A quel tempo, infatti, il terribile dio presentava agli uomini un aspetto ingannevolmente pacifico.

Poco dopo la nascita di Cristo, Strabone lo descriveva come "una montagna di terra fertile, della quale sembra che abbiano tagliato orizzontalmente la cima: crea una pianura del colore della cenere, nella quale si incontrano di tratto in tratto caverne piene di fenditure formate da una pietra annerita come se avesse subito l’azione del fuoco; di modo che, concludeva il geografo greco, "si può congetturare che lì vi fosse un vulcano il quale si è spento.....". Verde di boschi, abitato da pastori, il monte guardava dall’alto le belle e ricche città della costa Campana: Ercolano, Pompei, Stabia, Oplonti …

Ed è proprio un affresco pompeiano a tramandarci la sua immagine più antica: a forma di cono tronco e con una sola cima. 

La seconda cima si formò molto probabilmente con l’eruzione dell’anno 79, ma furono ben pochi i Pompeiani superstiti che poterono ammirare la bocca, che oggi si chiama Monte Somma, diviso dal Vesuvio vero e proprio dalla Valle del Gigante.

Quella tremenda mattina del 24 agosto 79 <<una nube d’aspetto e di dimensioni insoliti cominciò a velare il sole>>. Sono parole di Plinio il Giovane, tratte dalle due lettere che egli spedì allo storico Tacito per riferirgli la morte di suo zio, lo scienziato naturalista Plinio il Vecchio, soffocato dalle ceneri mentre tentava di imbarcarsi a Stabia per vedere il Vesuvio più da vicino. Fu un risveglio di inaudita violenza quello del vulcano e la narrazione di Plinio tocca punte di alta drammaticità.

Per tre giorni il Vesuvio sputò fuoco, lave, lapilli, fango, ceneri e gas, seppellendo gli abitati circostanti: si calcola che i morti siano stati circa ottomila. Al terzo giorno il dio si placò. Scrive Plinio, che aveva osservato la catastrofe da capo Miseno: "...la caligine si rischiarò e si dissipò, come se fosse fumo o nuvole. Infine tornò la vera luce del giorno (…). E allora al nostro sguardo pieno di spavento, tutto apparve mutato, ricoperto da uno spesso manto di ceneri, come dopo una nevicata".

Un paesaggio spettrale suggella la morte di Pompei ed Ercolano, destinate a rimaner sepolte e dimenticate, ignorate per diciassette secoli. Fino un certo giorno del 175: quando, lavorando il suo fertile orto sulla collinetta chiamata Civita, un contadino non urtò con la zappa contro un oggetto di bronzo che aveva la forma dell’organo sessuale maschile, ritrovamento arrivato fino alle orecchie di re Carlo III, che decise di far scavare la collina. Pompei era lì sotto.

Da quel giorno, comunque, il Vesuvio non fu più guardato come una fertile montagna dal singolare aspetto. Lo "sterminatore" si appropriò a pieno diritto di una fama funesta e luciferina. Per gli storici cristiani della tarda latinità era la dimora del Maligno. "Fumaiolo dell’Inferno", lo definì Tertulliano. E l’abate Desiderio da Montecassino scrisse di avere appreso da un monaco napoletano che, di notte, spiriti del male salivano sulle sue pendici per "alimentare il fuoco che dovrà bruciare gli uomini cattivi". Le eruzioni infatti si susseguivano. Pur senza essere più tremendamente distruttive come quella del 79, sono segnalate a intervalli fino a tutto il V secolo.

Una di esse, avvenuta dal 5 al 6 novembre dell’Anno Domini 472, dovette essere particolarmente violenta se lo storico Amato da Montecassino ricorda, nella sua Historia Normannorum, che recò immensi guasti, tanto da indurre Teodorico, re dei Goti, a condonare le imposte alla popolazione che aveva sofferto danni per la lava e per la cenere.

Anche intorno al volger del millennio dal Vesuvio scesero imponenti colate di lava; contro quel satanasso che sputava fiamme si era già levato fin da quei tempi un santo protettore: San Gennaro, ecclesiastico vissuto nel terzo secolo e ucciso a Pozzuoli durante le persecuzioni di Diocleziano.

L’effigie del patrono appare già in un ipogeo conosciuto appunto come catacomba di San Gennaro dei Poveri: solo Gennaro poteva contrastare la bocca dell’inferno. E infatti il Santo appare fino all’Ottocento in incisioni, immaginette, tavolette votive, con la mitria vescovile in capo mentre scende dal cielo ed esorcizza il monte in eruzione.

Al Ponte della Maddalena ancora si vede una statua, eretta nel 1777, che lo rappresenta nell’atto di fermare la lava tendendo il braccio verso il vulcano. Dopo questa data il gigante riprendeva a fiammeggiare: 1794, 1812, 1822, 1829, 1836…..

Dalla metà del Settecento in poi, mentre in Europa si diffondeva la cultura romantica, non ci fu viaggiatore colto che durante il suo "grand tour" di prammatica in Italia non volesse salire sul Vesuvio.

Vi salirono tutti. Vi salì l’imperatore Giuseppe d’Austria scortato da sir William Hamilton; vi salì Goethe, come pure Metternich.

I napoletani non sarebbero tali se non avessero presto imparato che dal vulcano di casa loro, oltre che danni, potevano trarre qualche vantaggio. Ai primi dell’Ottocento, con l’intensificarsi delle correnti turistiche (ormai non erano più solo i nobili a viaggiare, ma anche i borghesi) venne a crearsi una vera e propria organizzazione pro-vesuvio. Fondamentali le abili guide, capaci di calarsi con funi e cinghie fin nel cratere e di calarvi i visitatori. I nomi di Carmine Madonna, dei fratelli Cozzolino e di Vincenzo di Onolta si sono tramandati fino a noi.

La partenza in carrozza avveniva a Resina all’attività pirotecnica del cratere in piena notte. Queste scalate non avvenivano più nella solitudine che aveva impressionato Goethe: una folla di bancarellai accoglieva i visitatori al cosiddetto Eremo di san Salvatore, che non aveva nulla di religioso ma era una sorta di bar dove un "eremita" rifocillava a caro prezzo i visitatori con pane, uova e boccali del dolcissimo vino Lacryma Christi prodotto dalle locali vigne.

Ultima sosta prima di affrontare la vera e propria scalata al cono del Vesuvio, l’eremo era anche il luogo dove lasciare un segno del proprio passaggio. Ogni tanto sul vulcano qualche turista ci lasciava la pelle, come i quattro Italiani che si avvicinarono troppo al cratere durante l’eruzione del 1872. Anche l’eruzione del 1944, l’ultima, ebbe il suo cronista d’eccezione; così ha lasciato scritto Curzio Malaparte nel suo La pelle: "Un’immensa nube nera, simile al nero della seppia (…), gonfia di cenere e lapilli infuocati, si andava strappando a fatica dalla vetta del Vesuvio (…). Ogni tanto da qualche strappo della nube si rovesciava sulla terra e sul mare un diluvio di lapilli (…). Il Vesuvio gridava orribilmente nelle tenebre rosse di quella spaventosa notte". Da quel giorno il Vesuvio tace del tutto. Nell’enorme imbuto del suo cratere, profondo più di 200 metri, crescono le ginestre, il cui fiorire fra le lave solidificate aveva già colpito Leopardi. Eppure gli studiosi sanno che il vulcano non è affatto estinto. Parlano di "riposo dinamico". Insomma il Vesuvio dorme, come dormiva prima dell’anno 79.

La vita alle sue pendici si svolge come se nulla vi fosse mai accaduto.

Gli abitanti, il vulcano se lo sono quasi scordato, mentre migliaia di turisti armati di videocamere continuano a salire fino al cratere.

Tutto appare normale. Perfino banale. Ma non a chi sa ancora cogliere nel silenzio i messaggi profondi della natura.

A loro dedichiamo una riflessione di Renè de Chateaubriand, che salì sul Vesuvio il 5 gennaio 1804: - Cosa sono le tanto famose rivoluzioni degli imperi, paragonate agli accidenti di natura che mutano volto alla terra e ai mari? -

 

 

 

MENU